Le chiavi nella toppa della porta, la borsa con il peso di una settimana dentro, lasciata andare sul divano rosso dell’ingresso. Venerdì sera, finalmente a casa. Una donna di rientro da un lavoro che ama molto ma che molto le chiede, cerca uno scampolo di relax. Allo specchio, struccandosi, prova a lavar via trucco e stanchezza. La voce del marito, all’improvviso: “Amore vieni. Corri”. È davanti alla tv, impietrito. Parigi, la città da cui lui viene, è devastata da una serie di attacchi terroristici che massacrano decine di persone. Il marito, Jacques Charmelot, e lei, Lilli Gruber, appena rientrata a casa dallo studio di Otto e mezzo, rimangono, come tutti gli europei, raggelati davanti ai telegiornali, nella sera del 13 novembre 2015. Parigi sotto attacco come New York quindici anni prima, l’11 settembre 2001. Comincia così l’ultimo libro di Lilli Gruber. Prigionieri dell’Islam. Terrorismo, migrazioni, integrazione, il triangolo che cambia la vita (Rizzoli, 19,50). Pagine nate per capire come in quindici anni il mondo piuttosto che diventare più sicuro sia diventato una polveriera.
Lilli la sua inchiesta sembra avere due “motori”: uno tutto giornalistico, di analisi oltre ogni pregiudizio del legame tra l’integrazione dei migranti, l’Islam e il terrorismo; ma anche una spinta molto personale. Come se questi fatti la riguardassero in particolar modo. C’entrano le sue origini, ai bordi dell’Italia, in terra di confine, l’Alto Adige?
«Sicuramente, nel mio dna ci sono la frontiera e l’integrazione. Sono sempre stata considerata una diversa perché a casa parlavo il tedesco e le tradizioni di famiglia erano decisamente austro-ungariche. Questo mio vissuto personale mi ha però insegnato quanto sia importante mescolarsi conoscersi e capirsi. Ed è quello che ho fatto anche nel mio ultimo libro: esplorare meglio l’Islam di casa nostra e cercare di inquadrarlo nel travagliato mondo arabo di oggi».
Fa un lavoro di promemoria storico sulle responsabilità occidentali sul dissesto del mondo arabo, dal Dopoguerra, con la nascita in Israele, alla guerra in Iraq. Da cui dipende molto di quello che accade oggi in Siria, e poi l’ondata di persone in fuga dall’Isis. Pensa che oggi nelle cronache di noi occidentali ci sia un tentativo di rimozione delle nostre responsabilità?
«Non so se sia proprio una rimozione collettiva. Credo che non si voglia fare la fatica di ritrovare un po’ di memoria che invece è fondamentale per capire. Uno dei doveri professionali di un bravo giornalista è quello di inserire gli eventi in un contesto, di essere curiosi. Non tutto è riconducibile alla semplicità di dieci righe o alle urla di un ospite che fa audience. Ma anche i cittadini hanno un diritto e un dovere a essere informati. Non si è contemporanei e moderni solo avendo l’ultimo modello di Iphone».
Tra le urla ci si ferma ad una percezione distorta del fenomeno immigrazione. Per chiusura? Per paura?
«L’Italia attraversa da otto anni la più grave crisi economia dal Dopoguerra. L’opinione pubblica è più fragile, impaurita, ansiosa. Dunque suggestionabile da quelle che sembrano facili soluzioni a problemi complicati. Su terrorismo, Islam, migranti si fa tantissima confusione e manipolazione.
Dobbiamo stare ai fatti: dall’inizio del 2016 ad oggi sono sbarcati in Italia 47.740 migranti, ovvero il 4% in più rispetto allo stesso periodo del 2015. Ma l’Italia non corre i rischi di Paesi come la Francia o il Belgio con le loro grandi periferie ghettizzate. I nostri politici si dimostrano spesso irresponsabili quando sfruttano i dati per far leva sugli inevitabili timori dell’opinione pubblica.
Tutti sanno che non si possono blindare i confini: per esempio noi abbiamo quasi 7500 km di coste da controllare».
Da che cosa partire?
«Spetta alla politica ma anche all’opinione pubblica ritrovare dei valori forti e comuni. Solo così potremo confrontarci con chi è diverso da noi, per esempio il mondo islamico.
Io sono certa di conoscere quali sono i miei valori non negoziabili e di saperli anche spiegare a chi arriva nel nostro Paese: difesa dei diritti umani e dei diritti delle donne, dello stato di diritto e dello stato laico. Oltre, ovviamente, al rispetto della nostra Costituzione e delle nostre leggi».
Infatti si è anche molto esposta in prima persona, tra queste pagine, in cui racconta i suoi incontri, su e giù tra le varie pieghe dell’ Islam italiano, quello integrato della grande moschea di Roma, quello con più ombre che luci di Viale Jenner a Milano. A cosa di devono realtà così diverse?
«Quando parliamo di integrazione in Italia non dimentichiamoci che in molte zone del Paese è già un dato di fatto. Per esempio in Sicilia, dove la mescolanza e l’accoglienza sono praticate da secoli. Ma anche nelle nostre scuole i ragazzi non si guardano attraverso la lente della religione o del colore della pelle. Nell’Istituto Schiapparelli di Milano ho incontrato una musulmana credente con il suo fazzoletto in testa, un ragazzo di colore, una testimone di Geova, un italiano.
L’’ultimo dei loro problemi è l’accettazione. E lo Stato italiano dimostra tutti i giorni di saper funzionare. Nel capitolo sugli 007 ho scoperto decine di esperti e investigatori eccellenti che il resto del mondo ci invidia. Il nostro Paese ha dovuto affrontare il terrorismo interno degli Anni Settanta e da sempre le mafie e la criminalità organizzata: non siamo per niente sprovveduti né impreparati»
Lei racconta lo choc per i fatti di Colonia, le molestie a tante donne durante la notte di capodanno da parte di moltissimi stranieri e, diciamolo, non solo stranieri. È come se sulla carta lo sappiamo che non è negoziabile la libertà delle donne, ma poi in pratica, se le nostre cronache raccontano l’ennesimo femminicidio, come possiamo dar lezioni agli altri?
«Colonia ha messo in primo piano i rapporti che hanno con le donne i migranti ma anche i nostri maschi. Dobbiamo essere noi i primi ad avere chiaro cosa vuol dire libertà, rispetto dell’altro, uguaglianza. Solo così possiamo immaginare di chiedere il rispetto di questi valori ai nuovi arrivati. Se una ragazza di 22 anni viene ammazzata brutalmente a Roma da un ex fidanzato qualcosa non funziona nei rapporti tra i sessi, anche da noi. Credo che debbano essere anzitutto le donne a pretendere rispetto: la nostra libertà non può e non deve essere negoziabile.
Invece sul rispetto, dell’altro sesso come delle leggi, in Italia non siamo capaci di dare il buon esempio?
«Mi viene in mente il mio incontro con l’Iman di Viale Jenner a Milano. Quando gli fa comodo non rispondere ad una domanda dice: “Non capisco bene l’italiano”. È possibile? Dopo 26 anni trascorsi in Italia? In Germania non si transige: chi va a vivere lì deve integrarsi, conoscere la lingua, rispettare le leggi e le regole della vita comune. Integrazione vuol dire anche questo».
L’integrazione passa dalla leggi. Non da muri né da barriere?
«È un atto di irresponsabilità da parte dei politici dire che nuovi muri possano fermare il fenomeno dell’immigrazione. Semplicemente non è così: va governato. I due Paesi chiave rimangono la Libia e la Turchia. È chiaro che con loro dobbiamo fare accordi. E sull’Africa ha ragione Renzi: ci vuole un piano Marshall, come quello che gli Stati Uniti lanciarono per ricostruire l’Europa distrutta dopo la Seconda Guerra Mondiale. Costruire confini in un mondo come quello di oggi, globale e fluido, è impensabile e ci farebbe tornare indietro di decenni»
E le nuove generazioni, alle prese con un futuro precario, che percezione hanno secondo lei dei “nuovi arrivati”?
«Ho molta fiducia nelle nuove generazioni. Di sicuro si trovano a fronteggiare un mondo più complesso, con più incognite ma anche con più opportunità. Sanno ad esempio che se non difendiamo il nostro pianeta rischiamo di perderlo, che i consumi non possono essere illimitati. Molti di loro hanno capito che così com’è questo modello capitalistico basato sulla speculazione finanziaria più che sull’economia produttiva non può durare e che va garantita una redistribuzione della ricchezza più equa. Sono più consapevoli di noi, sanno che le ineguaglianze oggi creano conflitti, guerre e povertà domani».
E lei domani che cosa farà. Qualcuno di nuovo in Rai, magari come direttore di Tg.
«Io ho un altro anno di contratto a La7 dove sono felice: faccio il lavoro che amo in assoluta libertà. Qualche volta tendo a sopravvalutare le mie energie, come spesso accade a noi donne, che pensiamo di poter fare tutto senza pagare pegno. Senza il sostegno di mio marito Jaques e del mio gruppo di lavoro non ce l’avrei fatta, per esempio a conciliare il lavoro in tv con quello per il libro. Cerco sempre però di ritagliarmi un po’ di tempo per una pedalata nel verde. Da vera sudtirolese la natura per me è ossigeno».
Ultimo squarcio sul suo privato: la dedica del libro “A Matthaus, perché gli uomini della sua generazione possono cambiare le menti e i cuori”. Ce la spiega?
«Mio nipote Matthaus ha 25 anni, sua sorella Greta ne ha 28, sono i figli di mia sorella. Io non ne ho ma so quanto sia importante il ruolo delle madri nell’educare i ragazzi, maschi e femmine, alle pari opportunità. A partire dai gesti quotidiani, come rifarsi il letto e dare una mano in casa. Ecco, con generazioni cresciute così, di uomini e donne capaci di rispettarsi e aiutarsi, possiamo sperare di costruire un mondo migliore».